Kazakistan

Guardo il mio riflesso nello specchio e mi chiedo perché io valga di meno. In Kazakistan c’è un detto: «Una ragazza è un’ospite». E io sono sempre stata un’ospite — prima nella mia stessa casa, dove ci si aspettava che mi sposassi in fretta, e poi nella casa di mio marito, dove sono rimasta altrettanto estranea.

Questa convinzione è radicata persino nei nomi che ci vengono dati. Il mio nome è Ulbolsyn, che in kazako significa: «Che la prossima sia un maschio». Un figlio maschio è forza, è spada, è erede. E una figlia? È solo una bellezza effimera — temporanea, non apprezzata, destinata a svanire in fretta come un tulipano. Una bellezza che deve restare in silenzio, impossibilitata a rifiutare il volere del marito o della famiglia.

Da bambina sognavo il mondo e di conquistare l’universo, ma tutti i miei sogni si sono scontrati con risate crudeli o un silenzio assordante. «Una ragazza deve conoscere il suo posto», dicevano. Così ho imparato presto che servire e compiacere gli altri era l’unico modo per sopravvivere.

Quando il momento di sposarmi è arrivato, mi convinsi che sarebbe stato diverso. Forse l’amore avrebbe smussato gli angoli taglienti di questa realtà, forse mio marito mi avrebbe vista come qualcosa di più di un’ospite. Ma la realtà mi ha colpita come una lama. Sono intrappolata e, come tante altre donne, non posso sfuggire gli orrori che mio marito mi fa affrontare. Se la cena non èpronta, se sono troppo occupata con i bambini, se non sono allegra abbastanza — ogni cosa diventa una scusa per giustificare la violenza. Col passare del tempo ho capito che molte di noi non trovanoalcuna via d’uscita. Loro ci vogliono come piccole belle sciocche. Ma il problema delle sciocche è che nessuno si aspetta che combattano. E quando lo facciamo, il nostro ruggito sarà più potente di quello dei leoni.

Questa storia è potente e i dati che seguono dimostrano che non è affatto sola..

La questione dei diritti delle donne in Kazakistan ha attirato l’attenzione internazionale. Ogni anno, nel Paese, almeno 80 donne vengono uccise a causa della violenza domestica. La polizia riceve oltre 300 denunce di abusi ogni singolo giorno, un numero che continua a crescere anno dopo anno. Nel 2024, sono stati segnalati circa 100.000 casi di violenza domestica. Eppure, le pene legali restano incredibilmente lievi: causare danni fisici può comportare una semplice multa fino a 650 dollari o un breve arresto di massimo 25 giorni. In sostanza, in Kazakistan, la vita di una donna vale 650 dollari.

Una misoginia profondamente radicata alimenta questa crisi. Un numero significativo di uomini crede che le donne siano «le principali colpevoli» della violenza domestica, perché «non sanno tenere la bocca chiusa». Persino alcuni funzionari di governo hanno dichiarato pubblicamente che «le donne provocatrici» dovrebbero essere incarcerate insieme ai loro aggressori.

Secondo i dati ufficiali, una donna kazaka su sei, tra i 18 e i 49 anni, ha subito violenza fisica o sessuale almeno una volta nella vita. Fino all’anno scorso, la violenza domestica non era nemmeno classificata come reato penale in Kazakistan. Ci è voluta una tragedia nazionale per accendere la fiamma del cambiamento: l’omicidio brutale di una giovane donna, picchiata a morte dal marito, ex Ministro dell’Economia Nazionale. Il suo alto status ha reso il crimine ancora più sconvolgente, mostrando come alcuni uomini potenti credano di poter fare qualsiasi cosa senza conseguenze.

Sebbene alla fine sia stato incriminato e condannato, questo caso resta un doloroso promemoria di quante donne non abbiano mai ottenuto giustizia — nemmeno nella morte. E finché persone come lui continueranno a stare al potere, a decidere come una donna debba comportarsi e cosa possa fare con il proprio corpo, un reale progresso per i diritti delle donne in Kazakistan resterà solo una speranza lontana.